Le caratteristiche del Mare Adriatico - elevata trofia
(dovuta alla presenza di bassi fondali e apporto di nutrienti
dalle acque fluviali), fondali strascicabili, perché
pressoché privi di zone rocciose - hanno da sempre
consentito un'intensa attività di pesca che, negli
ultimi decenni, è stata sempre più praticata
mediante uso di reti a strascico. Questo tipo di pesca,
poco selettivo e che viene compiuto su vaste aree del fondale,
spesso è a carico di individui giovani, che non hanno
ancora compiuto il primo anno di età.
Negli ultimi dieci anni, l'intensificarsi di tale attività
di pesca ha portato al progressivo depauperamento di alcune
delle specie commerciali, e le misure di prevenzione finora
adottate (utilizzo di maglie non inferiori a 40 mm, interdizione
della pesca entro 3 miglia dalla costa, periodo di fermo
biologico) si sono spesso rivelate insufficienti. Ragion
per cui si è pensato all'istituzione, spesso in via
sperimentale, di aree marine Protette, in modo da migliorare
la produzione delle cosiddette "risorse rinnovabili"
e consentire una migliore gestione delle attività
di pesca.
Aree marine protette e "artificial
reefs"
In base alla definizione proposta dall'IUCN (International
Union for Conservation of Nature and natural resources)
in occasione della XVII Assemblea Generale, Febbraio 1988,
un'area marina protetta è intesa come una "qualunque
area dell'infralitorale o del mesolitorale, le cui acque,
comprendenti la flora, la fauna e le caratteristiche storiche
e culturali, sono sottoposte a misure di protezione riferite,
in tutto o in parte, all'ecosistema ambientale che vi è
compreso." Quindi, la protezione di aree marine può
perseguire vari scopi che vanno dalla tutela di sistemi
biologici, alla ricerca di un uso sostenibile delle risorse
naturali, fino a quelli formativi e di ricerca scientifica.
In molti casi, l'istituzione di zone di tutela biologica
è avvenuta mediante la costruzione di barriere artificiali
(dette "artificial reefs") che, poste all'interno
di un'area marina, costituiscono zone di rifugio per varie
specie ittiche (molte delle quali di interesse commerciale).
Con l'andar del tempo, all'interno di queste "artificial
reefs" si forma un vero e proprio microecosistema:
un processo simile a quello che avviene all'interno dei
reef naturali.
C'è da dire che le strutture di questo tipo vengono
utilizzate da secoli dalle comunità umane che vivono
in zone costiere, e oggi, più che mai, il loro utilizzo
è tornato nuovamente alla ribalta come sistema di
gestione delle risorse alieutiche.
Molti biologi marini dibattono sull'impatto causato da
tali strutture, perché, se poste in fondali molli,
possono soffocare la porzione di fondale sulla quale poggiano
e alterare il normale flusso delle correnti di fondo. Inoltre,
l'assemblaggio dei vari gruppi faunistici (attratti dalla
struttura), provoca un aumento dell'attività metabolica
della comunità, con conseguente variazione del contenuto
di sedimento organico, e aumento dei fenomeni predatori.
D'altra parte, è innegabile che queste strutture
possano costituire un habitat per determinate specie bersaglio,
e ciò contribuirebbe ad aumentare la portanza biologica
della zona, in termini di abbondanza e diversità
di specie, con ricadute positiva sulla produttività
globale delle risorse rinnovabili.
Nelle "artificial reefs", infatti, sono stati
spesso riscontrati valori di bio massa e di densità/specie
perfino superiori a quelli evidenziati nelle barriere naturali.
Oltre ad attrarre e, di conseguenza, consentire l'aggregazione
di vari gruppi faunistici per una rapida ricolonizzazione
del nuovo ecosistema formatosi, le "artificial reefs"
costituiscono zone idonee per la riproduzione, la deposizione
delle uova e la crescita delle larve, perché sia
il substrato che le zone nursery presentano tane e nicchie
che pongono gli esemplari al riparo dalla pressione di molte
specie di predatori, proteggendoli durante il loro periodo
di maggiore vulnerabilità e fornendo loro un'adeguata
disponibilità di cibo, a concentrazioni superiori
a quelle in mare aperto. Inoltre, nelle aree utilizzate
per la coltivazione di bivalvi, si crea un riciclaggio di
nutrienti.
In tal modo, è possibile attuare il recupero biologico
di zone degradate, grazie a un nuovo tipo di colonizzazione,
che consente anche la formazione di ulteriori catene alimentari.
Le alghe e gli invertebrati colonizzano la struttura molto
rapidamente; la composizione finale della comunità
biologica dipende dalla composizione del substrato, dalla
stagione in cui il materiale è depositato e dalle
variabili ambientali, p.e. temperatura e composizione chimica
dell'acqua.
I pesci tendono a radunarsi piuttosto rapidamente: il loro
"recruitment" avviene nel giro di poche ore dall'installazione
delle strutture, ma la popolazione raggiunge il climax nel
giro di qualche mese. In genere, la comunità biologica
all'interno di questo ambienti si stabilizza in un periodo
tra 1 e 5 anni.
Inoltre, le "artificial reefs" impediscono l'uso
indiscriminato delle reti a strascico, dal momento che il
fondo non risulta più facilmente strascicabile come
in precedenza, e la pesca potrà avvenire mediante
l'uso di attrezzi più selettivi (reti fisse, nasse,
ecc.) che catturano in prevalenza le forme adulte. Quindi,
è possibile avere un maggior controllo del pesce
pescato, che si traduce in una maggiore responsabilizzazione
del pescatore verso le zone di pesca. L'uso di reti fisse
implica anche un minor consumo di carburante, dato che i
pescherecci possono essere dotati di motori meno potenti.
L'impiego delle "artificial reefs" come strutture
per l'industria ittica si è da tempo affermato in
Giappone, dove il loro insediamento in aree marine strategiche
ha notevolmente aumentato la produttività di risorse
rinnovabili in mare aperto. Anche negli U.S.A. l'uso di
tali strutture ha incentivato il finanziamento di programmi
di ricerca e produzione ittica ad ampio respiro.
Esistono vari tipi di potenziali "artificial reefs",
la maggior parte presenti in zone poco profonde, soprattutto
all'interno delle acque costiere, (p.e. costruzioni in legno
o cemento abbandonate, oppure carcasse d'auto), ma è
possibile anche avere "artificial reefs" fuori
dalla fascia costiera come le piattaforme off-shore dismesse,
perché qualsiasi struttura che attragga le specie
ittiche influenzandone il comportamento può essere
considerata come "artificial reef" a tutti gli
effetti.
Il reimpiego delle piattaforme off-shore dismesse come "artificial
reefs" è stato ampiamente documentato.
di Otello Giovanardi e Attilio Rinaldi (ICRAM)
(
La dismissione ) »»
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